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Piccola riflessione sulla meraviglia

2024-06-15 00:03

Daniele Salviato

Piccola riflessione sulla meraviglia

E’ il 1974 quando il fotografo Jack Bradley coglie l’esatto istante in cui il piccolo Harold Whittles di 5 anni, affetto da sordità congenita, sente p

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E’ il 1974 quando il fotografo Jack Bradley coglie l’esatto istante in cui il piccolo Harold Whittles di 5 anni, affetto da sordità congenita, sente per la prima volta grazie ad un apparecchio acustico elettronico; nel suo sguardo, sgomento e incredulo, leggiamo tutto il senso di meraviglia. In senso metaforico (ma neanche tanto), lo vediamo rinascere. 

La domanda sorge spontanea: che cos’è la meraviglia? E’ un concetto così astratto e così unico che, senza rischiare di cadere in definizioni o etichette preimpostate, descriverlo risulta impossibile. Eppure è questa la domanda che mi è balzata in mente alcuni giorni fa, complice questa foto e un piccolo concorso interno al circolo fotografico che frequento (Il punto focale di Vicenza) e che ha dato il via a un sacco di elucubrazioni.

 

Non parlo tanto della definizione letterale, che potrete trovare in ogni dizionario, quanto di cosa possa – oggi giorno – smuovere le nostre anime al punto da rimanere meravigliati. In un mondo dove la connettività ha portato ad annullare distanze inimmaginabili, permettendoci di vedere con la stessa semplicità una partita di calcio trasmessa da Milano e il video di un’orca che va a caccia nel mar di Barents, abbiamo smesso di stupirci e di innamorarci. Già, perché la meraviglia è un pochino come innamorarsi: si rimane rapiti da cose – anche banali – ma che negli occhi di un amante risultano nuove, uniche. Ebbene, siamo rimasti travolti dalla quantità infinita di informazioni che ci vengono comunicate ogni giorno, perdendo la capacità di viverle e goderle a pieno. 

 

Abbiamo dimenticato il piacere delle cose, grandi o piccole che siano, e del piacere che vederle o viverle ci trasmette. Troppo spesso abbiamo lasciato che la routine ci avvolgesse come una coperta, disinsegnandoci a sognare. Ed è questa una battaglia da combattere. 

 

Per quanto mi riguarda sono ripartito dai bambini, come Bradley: ho accompagnato (per l’ennesima volta) mio figlio al museo di Scienze Naturali di Padova (andateci! È meraviglioso) e sono rimasto a guardarlo esplorare, scoprire, ricercare. Ho provato a rubare con gli occhi l’emozione nel prendere il tram, il piacere di guardare i pannelli interattivi, l’impressione nel guardare le zanne nel teschio di un orso delle caverne, il piacere di guastarsi il panino preso lungo la via del ritorno. Ho goduto della sua meraviglia, facendola un pochino mia e provando a rielaborarla. Che cos’hanno loro che noi non ricordiamo più? Che cosa gli permette di stupirsi ed emozionarsi con una facilità unica mentre noi troppo spesso annaspiamo nella nostra noiosa e sicura razionalità? 

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A mio avviso non è l’innocenza, né tanto meno la spensieratezza più spudorata che li contraddistingue, ma la predisposizione d’animo a generare e a nutrire la meraviglia. Se siamo recettivi, potremo riscoprire il piacere delle cose, siano esse un primo bacio o una festa a sorpresa, il profumo dell’erba bagnata dopo un temporale o un goal all’89°, un complimento inaspettato o una mostra mai visitata prima. Per noi fotografi (amatoriali) ciò è ancor più vero; riportare in fotografia l’emozione provata mentre scattiamo ci proietterà nello scatto, rendendolo una sorta di scatto “autobiografico”. Cartier Bresson ha detto che “fotografare è porre sulla stessa linea di mira la mente, gli occhi e il cuore”; una bella frase per le nostre pagine Facebook o per i nostri siti personali, ma che deve anche essere un monito per un lavoro più profondo